giovedì 7 agosto 2014

L'uomo e la bestia: raffronti e confronti.

Quanti di noi, nel corso dell'esistenza, non hanno mai provato affezione nei confronti di una bestia? Prima o poi, soprattutto in tenera età, un meticcio dagli occhi dolci ammalierà il nostro animo, oppure saranno le fusa di un certosino a farci crogiolare nella beatitudine e nella dolcezza. Che dire di tutto ciò? Atteggiamento sbagliato e deleterio, se non preceduto da opportune precauzioni razionali. Ragioniamo insieme.

Il semplice pensiero di dedicare anima, vita e corpo alle cure di una qualsivoglia bestia è una madornale abnegazione della natura umana: già è riprovevole il dedicare anima e corpo al prossimo (come ho avuto modo di spiegare nell'intervento rubricato "Ama il prossimo tuo meno di te stesso"), ma ancora più biasimevole è dedicarsi ad una bestia.
Pur essendo creature dotate di animo e di ragione (seppur circoscritti ed esplicati in base alle loro caratteristiche naturali) non sarebbero mai in grado di ricambiare quanto viene loro dato, e cosa fanno allora? Si adattano allo status quo limitandosi a dimostrazioni di sottomissione e, talvolta, di utilitarismo: il cane difenderà il vostro territorio spacciandolo per proprio, il gatto vi farà le fusa per ricordarvi di dargli da mangiare pur essendo in grado di procurarselo da solo, il canarino gorgheggerà o per reclamare cibo o per stordirvi i timpani e convincervi a liberarlo.
Nulla di sbagliato in tutto ciò: anzi, è perfettamente conforme alla loro ed alla nostra Natura. L'errore sorge nel momento in cui i mugolii di un cucciolo vi inteneriscono e vi inibiscono il raziocinio, facendovi pensare esclusivamente al bene della bestia. Veramente basta così poco per far cedere il vostro animo? Se cedete con un uggiolio, di fronte alle urla monsoniche della vita vi annichilirete?

È giusto, talvolta, considerare le bestie come degli esseri superiori all'uomo, giacché hanno conservato l'istinto naturale che l'essere umano ha sostituito con l'etica, la morale e la superstizione: ma mai al mondo costoro debbono essere considerate il fine del nostro agire, perché in quel momento noi ci ridurremo a loro schiavi, inibendo le infinitesimali possibilità di azione offerteci dalla Natura al momento della Creazione. Si creerebbe un circolo di interdipendenza foriero di inutili sofferenze e menzogne. Esse sono un mezzo di cui servirci, uno dei tanti utensili messi a nostra disposizione.
Dove e quando sorge la sofferenza? Nel momento della morte della bestia. Spesso l'uomo non rammenta che, salvi i casi di morte non naturale, la vita delle comuni bestie domestiche è ben inferiore al ciclo di vita umano: i cani di piccola taglia arrivano raramente poco oltre i 20 anni, mentre i cani di grossa taglia non arrivano ai 15; il gatto vive, in media, all'incirca 15 anni; il coniglio non arriva a compiere due lustri, il criceto neanche un lustro.
Orsù, ditemi: secondo quale logica dovremmo affezionarci oltremisura ad un qualcosa che perirà prima di noi? Non ci sarebbero risparmiati patemi ed inutili piagnistei se rammentassimo questa non trascurabile statistica?

Che fare, dunque? Come e quanto "donarsi" al nostro affettuoso cagnolino? Con le dovute accortezze, potreste persino donarvi in toto alla bestia. E quali potrebbero essere alcune delle succitate accortezze?
Innanzitutto, qualunque cosa possa accadervi e qualunque cosa vi possa ferire o turbare, usare la bestia come fosse un Muro del Pianto è fallace ed inconcludente. A che pro comunicare le nostre debolezze ad un essere che non è in grado di fare altro se non chiedere attenzioni e sostentamento? Certamente è meglio sfogarsi con un animale che rischiare di confidarsi con un altro essere umano ed essere poi pugnalati alle spalle (in tal caso, è opportuno scegliere saggiamente con chi condividere le proprie debolezze), ma in ogni cosa ci vuole la giusta misura.
Proseguendo, non dimenticate quanto già dichiarato poc'anzi: l'affezionarsi ad un qualcosa (una qualunque cosa, anche inanimata) che non ci sopravviverà è solo una fonte di sofferenza, e piuttosto che aggiungere sofferenze a quante ce ne potrebbero capitare in futuro, è opportuno predisporre un'esistenza esposta il meno possibile alle sofferenze.
Infine, e qui concludo, è opportuno rammentare anche quanto dichiarato in un precedente intervento (rubricato "Gli animali e le bestie"): la bestia domestica resta un mezzo, un nostro bene, un accidente sottoposto al nostro arbitrio; invertire la situazione ci renderebbe inferiori persino alle bestie, perché avremo perso l'esercizio della volontà, il dono più grande e potente che mai avremo modo di avere.

A. G. 

sabato 5 luglio 2014

Nihil volenti difficile.

Quanti di voi si sono mai sentiti dipendenti da qualcosa? Pensiamo al fumatore che dipende dalla nicotina, ovvero pensiamo all'avaro che non riesce a separarsi dal denaro raggranellato nel corso del tempo. Ma cos'è questo elemento accidentale dell'esistenza, questo quid che tanto è in grado di influenzare il nostro percorso? E soprattutto, è concepibile una compatibilità tra l'essenza umana e lo stato di dipendenza? Ragioniamo.

Innanzitutto, cosa vuol dire essere dipendenti da qualcosa? Dal punto di vista meramente pratico, possiamo definirlo come uno stato di necessità che ci spinge ad assumere od utilizzare un determinato bene per trarne sollievo ovvero, nei casi più incalliti, sopravvivenza. Ma badate, deve essere un bene che esula dal normale flusso naturale delle cose (sarà, dunque, errato asserire che gli esseri viventi "dipendono" dall'ossigeno, non essendo ammissibile immaginare un sistema in cui l'essere vivente sia in grado di sopravvivere senza di esso), un bene che, pur non utilizzato, non impedirebbe comunque il nostro ciclo vitale.
Premesso ciò, passiamo alla prossima tessera del domino: come si entra nel circolo di dipendenza? Qui il numero di cause si mimetizza perfettamente con la sabbia del deserto, essendo riscontrabili migliaia di punti di partenza da cui poi esplode la dipendenza.

A questo punto, possiamo coadiuvarci con una delle dipendenze più emblematiche e diffuse: la dipendenza da nicotina (il medesimo discorso può affrontarsi con ogni altro bene di dipendenza, pur mutando le cause).
Come ha inizio questo circolo? Tanto più gli anni passano, tanto più l'età minima in cui si inizia a fumare si abbassa, e tra tutte le cause che si imputano a ciò, quella vincente è sempre la stessa: per "giocare a fare i grandi". Ma è veramente così? Non si può negare che è l'iniziare a fumare spesso è il primo segno di emersione dal marsupio materno, il primo dei mille atti egoistici che l'uomo si prefissa in ogni suo agire. 
Ma allora, giunto il tempo in cui l'infante non è più tale, quando ormai è in possesso di tutti i mezzi fisici ed ideologici necessari per emergere, perché persistere ad utilizzare un espediente che oramai ha esaurito la sua efficacia? Interviene la Natura ed i suoi ingranaggi, di modo che esso, anche se mero accidente, diviene vitale. Ecco incorrere, dunque, la dipendenza.

Bene, dopo aver dissertato a lungo su questo status, bisogna analizzare come la dipendenza si rapporta con l'essenza umana. Ebbene, in sé potrebbe benissimo esistere un mondo senza dipendenza, e cercherò di spiegarvi il perché.
Spesso si recita il brocardo nihil volenti difficile, per sottolineare quanto la volontà dell'uomo sia in grado di devastare e riformare quanto lo circonda. E di fronte ad una forza così poderosa, nulla impedisce all'uomo di rivolgere la medesima volontà verso se stesso. L'esito di questo scontro "volontà vs dipendenza" può avere l'esito più vario, ma la volontà, così come ogni arma, è tanto più micidiale quanto più forte è l'animo del'uomo: è scontato che un uomo di debole e succube indole, senza certezze e senza obiettivi che sia in grado di raggiungere, sarà assuefatto dalla dipendenza e dall'inettitudine, disintegrando il proprio animo e macerando le proprie carni; l'uomo risoluto e sicuro delle proprie possibilità (siano esse lungimiranti o dirette a questioni bagatellari) non potrà soccombere dinanzi alle lusinghe della dipendenza.

Non è fuori luogo una questione di questo tipo: abbiamo affermato che è la Natura ad instillare nel nostro corpo la sensazione di dipendenza da un determinato bene, ma allora il contrastare la dipendenza equivale a violare i limiti fissati dalla Natura? Ebbene, la risposta è negativa. Le leggi della Natura impediscono all'essere umano di volare, eppure ha fornito comunque all'uomo la possibilità di scoprire e realizzare altri modi per perseguire lo scopo; per le stesse ragioni, non vige alcuna antinomia nell'immaginare una volontà in grado di contrastare gli impulsi psico-fisici della dipendenza.

Ricolleghiamoci ora, in conclusione, ad un quesito lasciato in sospeso poc'anzi: perché persistere ad utilizzare un espediente che oramai ha esaurito la sua efficacia? Semplice: la "dipendenza" diviene un nostro strumento, un mezzo che siamo liberi di sfruttare per perseguire i nostri obiettivi, senza che essa possa mai condizionare le nostre scelte. Laddove esiste una volontà vincente rispetto alla dipendenza, quest'ultima (pur inducendo nel nostro organismo e nella nostra psiche gli effetti collegati a ciascuna fonte di dipendenza) non sarà mai in grado di soggiogarci. Quanti baldi giovani utilizzano la scusa della sigaretta per intrattenere un anche minimo dialogo con l'avvenente fanciulla conosciuta quella sera? Per non parlare del traffico clandestino di stupefacenti: quale miglior modo per lucrare a causa della dipendenza e della debolezza altrui?

martedì 10 giugno 2014

La porta dell'anima.

Tema complesso, quello che intendo affrontare in questo intervento. Complesso come quello dell'amore, complesso come la vita. Introduciamo il tema dell'anima. Come giustificare le sensazioni che percepiamo lungo il corso della nostra letale esistenza?
Non intendo discutere, in questa sede, dei profili della psicologia, non essendo in possesso di una sufficientemente ampia conoscenza della materia in grado da rendermi legittimato ad affrontare il tema; l'obiettivo sarà quello di analizzare il backstage del percorso dell'anima dalla nostra interiorità all'esterno, e viceversa. Inoltre, esuleremo (ovviamente) dal concetto di "anima" sostenuto dalle varie dottrine religiose, ovviamente diretto ad aumentare il numero di accoliti e quindi soggettivamente orientato. Cerchiamo di basarci su dati più concreti ed oggettivi possibili, per quanto l'anima sia un'elemento in sé astrattamente concepibile.
Dette queste premesse, ragioniamo.

L'anima è quell'elemento innato e necessariamente incatenato all'esistenza di ciascun essere vivente e ne costituisce l'elemento di differenziazione (o, talvolta, di comunione, ma mai di omologia). A sostegno di ciò, adduciamo qualche esempio:
- l'anima è senz'altro un elemento determinante nella formazione del carattere di noi esseri umani: le modalità di educazione e gli eventi incisivi dei primi anni di vita sono elementi accidentali, che hanno una ben limitata influenza sulla nostra crescita interiore. Possiamo essere cresciuti per essere forti come lupi e scaltri come volpi, ma se dentro di noi alberga l'anima da pecora o da somaro, non saremo mai all'altezza del percorso che ci è stato faticosamente spianato.
- l'anima è alla base delle nostre sensazioni di benessere e soddisfacimento fisico e/o interiore, chiamiamoli, secondo l'uso comune, "gusti personali": perché mai il noto brocardo afferma che de gustibus non est disputandum? L'uso della perifrastica non è casuale: non si devono discutere i gusti altrui, perché essi sono indissolubilmente legati alla nostra anima e sottratti al nostro soggettivo giudizio, non ci si può aspettare un comportamento contrario a quello insito nel nostro animo. Se a Tizio piace il colore rosso ed a Caio piace il colore blu, nessuno potrà condannare quest'ultimo perché il suo colore preferito è diverso da quello di Tizio.
- l'anima detta le nostre emozioni, manifesta le sensazioni che determinati eventi o circostanze suscitano nel nostro animo (termine non casualmente utilizzato). Detto ciò, la persona che si commuove dinanzi ad una scena ricca di pathos sarà non a torto accostabile all'individuo che, dinanzi alla medesima scena, reagirà russando rumorosamente.
Permettendoci una storpiatura del sopracitato brocardo, sarebbe più generalmente applicabile l'inciso "de animo non est disputandum", sì da ricomprendere ogni possibile sfaccettatura dell'interiorità umana.

Dopo questa chilometrica definizione, passiamo al prossimo quesito: come si lega, dunque, l'anima con il Creato? Domanda che, premesso quanto detto poc'anzi, potrebbe risultare di ovvia risposta. Tuttavia, integriamo.
Ognuno di noi apprezza qualcosa in ragione di ciò che quella determinata cosa ci trasmette o ci dona: a sostegno di ciò adduciamo la musica, l'arte più duttile e malleabile a disponibilità del genere umano.
Prendete un brano di musica classica, sia esso un notturno di Chopin od una messa di Mozart, e fatelo ascoltare a dieci persone diverse: ognuna di esse vi proferirà un'interpretazione diversa. Questo perché l'innata anima di ciascuno guida i nostri pensieri e le nostre emozioni verso una determinata strada di ragionamento su ciò che la vita ci presenta.
E se invece prendessimo dei brani musicali contenenti un testo scritto dall'autore o da altrui? Difficilmente potrà compiersi il medesimo percorso di interpretazione, e questo perché? Le parole scritte dall'autore del testo contaminano la musica con il lascito della sua anima, e ciò rende il brano incompatibile con l'anima di ciascuno dei destinatari della canzone, perché quella musica accostata a quel determinato testo susciterà le sensazioni percepite dall'autore solo nei confronti di quest'ultimo, e difficilmente queste saranno omologhe a quelle percepite da un casuale ascoltatore, corrompendone la purezza.

Immaginiamo la nostra interiorità come una grande biblioteca, ricca di gusti e di sensazioni, di esperienze ed eventi. Chiudiamo a chiave questa stanza con una porta di vetro, e diamo a questo uscio il nome di "anima":
- la resistenza dell'uscio dipenderà dalla debolezza o dalla forza d'animo del soggetto;
- il vetro sarà o più o meno opaco a seconda del grado di apatia dell'individuo.
Ma ci sarà una chiave per aprire questa interiorità ed accedere ai suoi tesori, per disperderli nel mondo ed accumularne di nuovi? Certamente sì, una di queste è proprio la sopracitata musica (la musica, invero, ne possiede addirittura 7, di chiavi) insieme a tutto ciò che è in grado di risvegliare il nostro intelletto ed a lasciarci andare ai tragitti percorsi dal nostro animo.

Chiudiamo l'intervento rispondendo ad un ultimo quesito: le bestie sono in possesso di un'anima?
Avviamo l'analisi del tema introducendo la nota teoria di Duncan MacDougall sul "peso dell'anima" equivalente a 21 grammi. Per sintetizzare, costui poneva i pazienti la cui morte era imminente (i casi furono 6) su di una bilancia, e rilevava un calo di peso medio di 21 grammi nel momento in cui sopraggiungeva il decesso (in realtà i risultati furono molto variabili, con improvvisi cali ed aumenti di peso e con un solo caso di perdita di peso pari a 21 grammi). Costui, a sostegno di questa fantomatica teoria priva di alcuna prova scientifica, avrebbe provato il medesimo esperimento su 15 cani, e giustificò la mancata variazione di peso adducendo la dottrina cristiana (ebbene sì, anche qui mette lo zampino!) per cui le bestie non hanno anima.
La tesi addotta dall'insigne medico è accoglibile? Dal punto di vista scientifico, decisamente no; dal punto di vista teorico-filosofico, è sbagliato attribuire alle bestie un'essenza tipicamente umana?
Secondo chi vi scrive, è possibile rilevare prove relativamente "tangibili" sull'esistenza di un'anima bestiale: l'istinto di difesa di un cane rivolto alla proprietà dei propri padroni, la madre che difende i propri piccoli dalle minacce dei predatori, oppure pensiamo all'ilare immagine del cane che "accompagna" col canto il padrone che suona il pianoforte, lanciandosi in guaiti e lamenti degni della Scala di Milano.
Prove di certo opinabili, ma il tema dell'anima è labile per definizione. Lasciamo che sia l'uomo ed il suo duttile ingegno a scoprire i segreti ed i meccanismi di quanto la Natura ci ha lasciato.

A. G.

domenica 27 aprile 2014

Gli uomini e le bestie.

Non è trascorsa neanche una settimana che già sono di nuovo qui, pronto a parlare con voi di un argomento di cui progettavo da tempo la stesura: l'essere umano e le bestie.
Iniziamo con una prima obiezione che mi si potrebbe fare: "perché chiamarle bestie? Non le si può chiamare animali?", e la risposta è no, per un semplice motivo: parlare di "uomo ed animali" sarebbe come distinguere l'aquila dagli uccelli. Questo perché l'uomo è compreso nella specie animale. Ma l'uomo, nella sua superbia e presunzione, ritiene un insulto chiamare se stesso "animale", ed ecco perché adesso la parola "animale" è sinonimo di "bestia". Andando per sillogismo, allora, anche gli uomini sono bestie, il che non è molto lontano dalla realtà, come si avrà modo di vedere nel prosieguo.

Gli animali sono la macrocategoria, che si suddivide in 2 categorie: le bestie e gli esseri umani. Dove sta la differenza? Gli esseri umani sono quegli animali ai quali la Natura ha fatto dono di potenze più sviluppate rispetto a quelle spettanti alle bestie, da quelli più ancestrali come il pollice opponibile, fino ad arrivare a caratteristiche più complesse, talvolta comuni talvolta diverse per ciascun essere umano.
Nonostante ciò, l'uomo e la bestia hanno un unico grande denominatore comune: ambedue sono dotati della Ragione: ma mentre nelle bestie essa resta vincolata dalle sue caratteristiche anatomiche, l'uomo ha spinto agli estremi la propria sete di conoscenza e di dominio, allontanandosi dalla purezza del Creato e vincolandosi a sua volta con istituti e precetti antinaturali.
Ritenete assurdo che le bestie siano dotate di Ragione basandovi esclusivamente sulla loro apparenza? Ebbene, cercherò di convincervi adducendo alcune dimostrazioni.

Come primo esempio vi porto i Didelfidi (aka Opossum): in presenza di un pericolo è in grado di difendersi, ma laddove il predatore si dimostri naturalmente superiore, gioca d'astuzia e si finge morto, sfruttando l'elemento sorpresa per sfuggire da morte certa. Un sistema analogo è utilizzato dalla femmina che, per difendere i propri piccoli, distrae il predatore fingendosi morta; quest'ultimo, distratto ed incuriosito dalla preda servitagli così facilmente, distoglierà l'attenzione dai piccoli, che si dirigeranno verso un limitrofo luogo sicuro. Non appena i piccoli sono fuori pericolo, la madre "riprende vita" e scappa, lasciando a bocca asciutta il confuso e buggerato predatore.

Facendo un salto indietro di millenni, sia Erodoto (Storie, II, 68) sia Aristotele (Storia degli Animali, IX, 6) sia Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, VIII, 37) raccontano l'episodio del coccodrillo e del trochilo: questo uccellino penetra nella bocca del coccodrillo e gli ripulisce i denti del cibo di cui il rettile si è nutrito, e quest'ultimo, in ragione del favore ricevuto, non divora la bestiolina. Ai giorni nostri, il trochilo è classificato come pluvianus aegyptius, noto altresì come "guardiano dei coccodrilli" ovvero "spazzolino del coccodrillo".

Anche passando ad esempi più contemporanei e più facili da notare (ad es. il cane sa dimostrare quando è affamato o quando gli scappa un bisogno, il gatto sa che strategia usare per catturare il topo, mentre a sua volta il topo saprà architettare una strategia per sfuggirgli) emerge chiaramente il raziocinio delle bestie.

Risultati particolarmente interessanti sono riscontrabili nell'interazione tra l'uomo e la bestie: questo è il momento più naturale del Creato, ecco i due animali a confronto. Il confronto, come facilmente intuibile, può assumere 2 aspetti:

Lo scontro
Il meno comune al giorno d'oggi (per quanto desti tuttora un curioso interesse) ma di certo il più ancestrale dei confronti, il baluardo della spinta istintuale della nostra natura animale.
Presuntuosamente, l'uomo erge se stesso ad animale contro il quale la bestia non ha speranze, giocando tutto sulla malleabilità della sua Ragione; conclusione inesorabile, per chi ha venduto il proprio raziocinio a lusinghe melense ed a incoerenze diffuse su scala planetaria. Le fiabe di Esopo e di Fedro hanno innalzato lo stereotipo dell'astuzia vittoriosa sulla forza bruta (che, se applicata a determinati contesti, è senz'altro un valido esempio), ma chi ragionerebbe mai con un animale dotato di una Ratio diversa dalla propria?
Quale uomo si metterebbe a discutere con un leone, od inizierebbe a ragionare sul modo più astuto di sfuggire alla bestia? Non accadrà mai, perché l'istinto risponderebbe ed agirebbe per lui: anziché "prendi i soldi e scappa" (per citare una nota pellicola di Woody Allen), la risposta sarà "molla tutto e scappa". La reazione sarebbe la medesima anche con la consapevolezza che la Natura ha dotato la bestia di doti superiori alle nostre, dunque anche in situazioni dove la speranza di uscirne illesi è dettata più da scaramanzia che non da oggettività (nessuno potrà mai credere di poter seminare un ghepardo affamato in velocità o di poter superare una tigre in forza, chiunque lo pensasse sarebbe uno stolto superficiale).

La schiavitù cooperativa
Ecco l'effetto più comune del nostro rapporto con le bestie: divengono o i nostri giullari o i nostri schiavi, tanto dei nostri capricci quanto delle nostre passioni. Pensiamo alle mute da caccia, o alle bestie circensi che tanto appassionano gli infanti, o alle gare di bellezza dove i cani vengono agghindati come fossero delle ghirlande da appendere sopra al caminetto.
Qualcuno obietterà "e che dire, invece, delle bestie da compagnia?" Domanda tautologica, giacché la risposta sta nella definizione: bestie da compagnia, destinate a far sfogare gli uomini delle proprie paranoie e dei propri patemi. La bestia da compagnia non ti dirà mai che sei brutto, non ti dirà mai che sei grassa, non ti dirà mai che la moglie che ami tanto, mentre vai a sgobbare in fabbrica per portare il pane in tavola, accoglie nella propria alcova un uomo diverso a settimana. E perché? Semplice: perché non può, o meglio, può farlo nei limiti che la Natura gli ha concesso (pensate al cane che abbaia furiosamente contro un ospite, o si tratta di uno sconosciuto o di uno che conosce particolarmente bene uno dei coniugi).
E perché definire questa schiavitù "cooperativa"? Vi rispondo con l'ausilio di una seconda domanda: perchè mai una bestia dovrebbe sottostare ad un tale trattamento, perché dovrebbe sopportare tutte le coccole della "mammina" quando il suo più grande desiderio sarebbe correre libero in un parco accanto ai propri simili? Non è altro se non un mero do ut des: io ti do le attenzioni ed ascolto i tuoi sfoghi, tu riempimi la ciotola e svuotami la lettiera! Ecco dove sta la cooperazione di interessi, ecco la causa del contratto. Pure congetture basate sull'aria fritta, direte, ma l'egoismo non guida solamente le azioni maschili, ma guida ancora di più quelle delle bestie. E nella Ratio bestiale, non si morde la mano che ti prepara il cibo in scatola e ti risparmia la caccia e la corsa da fare dietro alla preda, per quanto nulla gli vieti di mingerti sulla moquette (se non evitare la scudisciata).

Concludo con una piccola storiella: c'era un albero di mele che cresceva nelle prossimità di un pendio, ed accanto a questo albero scorreva un impetuoso fiume.
Quando l'albero diede frutto, molte mele caddero in acqua e vennero portate via dalla corrente; altre, invece, caddero in prossimità del pendio e rotolarono giù; infine, altre caddero a terra e divennero il cibo per gli insetti.
Non importa che fine abbia fatto ciascuna mela, sempre mele rimarranno.

A. G.

martedì 22 aprile 2014

La "Scommessa di Pascal".

Ritorno a scrivere in occasione di un traguardo particolare: le 1000 visualizzazioni. In ragione di ciò, premetto i miei ringraziamenti per tutti coloro che hanno avuto il tempo di soffermarsi a leggere, anche solo per qualche riga, le mie dissertazioni, illudendomi che le visualizzazioni sorgano per spontaneo interesse e non per errore nella scelta del sito da visualizzare.

In occasione della trascorsa festività pasquale, affrontiamo nuovamente il tema religioso, incentrando il ragionamento su di un brano molto famoso e di larga applicazione.
L'agnello sacrificale è il filosofo Blaise Pascal, ed il brano scelto è quello inerente alla famosa "scommessa sull'esistenza di Dio".

" [...] Valutiamo questi due casi: se vincete, vincete tutto, se perdete non perdete nulla. Scommettete, dunque, che Dio esiste, senza esitare.[...] " 
[B. Pascal, Pensieri, 233]

Approfondiamo dunque l'analisi e sussumiamo i risultati della "scommessa":
1) se Dio esiste e noi abbiamo creduto, guadagneremo il premio da Lui promessoci nelle Sacre Scritture;
2) se Dio esiste e noi non abbiamo creduto, perderemo il premio testé citato;
3) se Dio non esiste e noi abbiamo creduto, non avremo perso nulla né guadagnato alcunché;
4) se Dio non esiste e noi non abbiamo creduto, di nuovo non perderemo né guadagneremo nulla.

Secondo quanto detto in precedenti dissertazioni, i primi 2 punti sarebbero subito eliminabili per l'assurdità contenuta nella protasi, ma vediamo di complicarci la vita e di analizzare più a fondo la questione. 
La stessa Bibbia, in Eb. 11:1, ci dice che "la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono"; siamo dunque di fronte ad una definizione generale di "fede", senza alcun riferimento alla divinità cristiana (inciso anacronistico, giacché nell'Antico Testamento non si può ancora parlare di cristianesimo). Dunque, ciascuna fede interpreterà il suddetto passo secondo i dettami del proprio Credo, originando tante teorie quanti sono le credenze del Creato.
Anche il panteismo naturalistico (la corrente di pensiero che impregna il mio pensiero mentale, scritto ed orale) di matrice spinoziana è una fede, ma essa ha quel quid in più che nessun'altra fede teocentrica possiede. Prendiamo il secondo inciso del passo (la fede è [...] dimostrazione di realtà che non si vedono) e constatiamo che una dimostrazione della realtà esiste, anzi, essa è la pietra di volta del sistema panteistico. Siamo in possesso di 2 mezzi di dimostrazione: uno teorico, costituito dalla Ragione, ed uno pratico, costituito dalle leggi naturali.

Prendiamo ad esempio un caso banale: il principio di Archimede. Frammentiamone la dimostrazione:
- elemento teorico = formulazione del teorema: ogni corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido (liquido o gas) riceve una spinta verticale dal basso verso l'alto, uguale per intensità al peso del fluido che occupa nel volume spostato.
- elemento pratico = esempi: la nave galleggia in acqua, la mongolfiera sale verso l'alto, etc.

Ecco emergere dunque l'insufficienza del Credo cristiano, la sua deficienza nel calarsi nel Creato, proprio perché è carente di dimostrazioni concrete, necessità che, col trascorrere dei millenni, è divenuta sempre più impellente.

Proseguendo con gli ultimi 2 punti della sussunzione, trovandoci in presenza di una protasi conforme al Credo panteistico, analizziamo la comune apodosi, che in ambo i casi dovrebbe subire una variazione:
- se Dio non esiste e noi abbiamo creduto, avremo perso molto e non avremo guadagnato nulla;
- se Dio non esiste e noi non abbiamo creduto, non avremo perso nulla ed avremo guadagnato molto.

Il perché di questa modifica? Semplice: il credere in Dio comporterebbe uno stile di vita e di pensiero che poco si conforma con il progetto di vita che ci spetta (nulla ci può vietare di desiderare una donna di un altro, nulla ci può obbligare ad onorare i propri genitori, nulla ci può obbligare a dire sempre il vero). Per non parlare poi delle ripercussioni sul nostro intrinseco istinto utilitaristico.
Prendiamo, ad esempio, una delle più celebri affermazioni contenute nel Nuovo Testamento: "Se qualcuno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra." [Mt. 5:39] Quando mai questa fattispecie sarebbe rispettata nel nostro contesto, dove la reazione più naturale è ripagare con la stessa moneta (o addirittura a maggior caro prezzo) l'aggressione subita? L'uomo, in quanto animale privilegiato, non può che essere soggetto alle stesse indoli delle bestie, ove il non reagire ad un aggressione è indice di debolezza e di biasimo da parte degli altri. Basti pensare alle lotte tra i maschi di un branco per conquistare la femmina con cui accoppiarsi, ove talvolta lo sconfitto è indotto ad abbandonare il branco; oppure, prendendo un esempio meno complesso, pensiamo al cane che viene aggredito e morso da un altro cane, qui le scelte sono 2: o reagire all'offesa subita (con la possibilità di riscattarsi e dimostrare la propria superiorità) oppure sottomettersi al più forte ed essere sconfitti in partenza.

Pertanto, secondo quale criterio vige il divieto di falsa testimonianza, ove la verità ci porterebbe più danni che vantaggi? Chi può vietarci di sedare le proprie pulsioni sessuali tanto verso di sé tanto verso l'oggetto del proprio desiderio?
Emerge la semplicità dell'individuazione degli innumerevoli limiti scaturenti dalla credenza cristiana, soprattutto nella consapevolezza che, come scritto nella protasi, la deità non esiste.
Di conseguenza, la scommessa di Pascal ci conduce ad un'errata visione della natura delle cose, come si è cercato di dimostrare.

Un'ultima domanda dobbiamo porci, prima di chiudere il tema: perché questo stratagemma ha avuto così larga diffusione? A mio pare, la soluzione è sussumibile in una parola: pigrizia.
Infatti i "fedeli", non avendo voglia di stare a riflettere sul perché e sul percome Dio dovrebbe esistere, si giustificano recitando i 4 punti testé analizzati, dimostrando la loro scarsa lucidità mentale e l'accidia del loro raziocinio, elemento paradossalmente riprovevole anche agli occhi della fede cristiana.

Concludo l'intervento ringraziando nuovamente per il traguardo, augurandomi un maggior afflusso di lettori interessati alle tematiche affrontate. A presto.

A. G.

mercoledì 5 febbraio 2014

Per amore o per interesse? Omnia Vinxit Amor #1

Ritorno a scrivere affrontando un tema complesso, quasi eterno: quello dell'amore. 
Come titolo di questa rubrica, ho storpiato il noto brocardo di Virgilio Omnia vincit Amor (Bucoliche X, 69) semplicemente cambiando una lettera: Omnia vinxit Amor. Amore che lega ma amore che incatena, amore che trattiene ma amore che protegge. Così sfaccettato, così caotico, che sarebbe impossibile riuscire a comprenderlo in un unico fascio, giacché uno solo dei suoi innumerevoli elementi conta più di qualsiasi fascio. 
Mi accingo ad affrontare il tema dell'amore sotto un aspetto a mio avviso basilare, ossia l'amore correlato alla visione utilitaristica che impregna in ogni dove l'esistenza di ogni singolo essere umano: con ciò, mi riservo di coadiuvarmi di un estratto de L'arte di trattare le donne di Schopenhauer, considerato (giustamente o meno, a seconda dell'interlocutore) baluardo della misoginia moderna; l'estratto, non a torto, si intitola "Per amore o per interesse?". Leggiamo:

L’uomo che nello sposarsi bada al denaro invece che a soddisfare la propria inclinazione vive più nell'individuo che nella specie, il che è l’esatto contrario della verità e si presenta quindi come contro natura, suscitando un certo disprezzo. Una fanciulla che, ignorando il consiglio dei genitori, respinge la domanda di un uomo ricco e non vecchio per scegliere solo secondo la sua tendenza istintiva, passando sopra a tutte le considerazioni di convenienza, sacrifica il suo benessere individuale a quello della specie. Ma appunto per ciò non le si può negare un certo plauso, avendo ella preferito ciò che è più importante e agito nel senso della natura (e più precisamente della specie). 
[A. Schopenhauer]

Perdonami, caro Arthur, ma permettimi di analizzare questo tuo inciso come meglio si cala nella realtà dell'esistenza e nei precetti razionali, e di metterne ivi in luce i tratti maggiormente contestabili. 
Innanzitutto, ti si può dare piena ragione quando affermi che "l'uomo che nello sposarsi bada al denaro [...] vive più nell'individuo che nella specie", ma sorge l'amaro in bocca nel momento in cui concludi affermando che ciò "si presenta quindi come contro natura". Trovo inconcludente separare la bramosia di denaro dalle inclinazioni umane (inclinazione intesa come "istinto ancestrale"), in quanto la bramosia di denaro è manifestazione delle proprie inclinazioni tese al possesso, che nel caso in esame è peculiarmente rivolta alla pecunia; sarebbe come separare e distinguere l'ossigeno dagli altri gas. Da ciò deriva l'inesattezza di tutto ciò che segue: difatti, la bramosia di denaro è dettata dall'inclinazione al possesso, dal desiderio di avere per sé quanto più ci aggrada, dunque ciò è perfettamente corrispondente alla verità dell'esistenza (giacché l'uomo è spinto istintualmente dal possedere ciò che desidera), ergo è perfettamente naturale; dunque, il disprezzo con cui si guarderebbe a questa falsa "non-naturalità" è da guardare con ancora maggior disprezzo.
Proseguendo, è d'uopo cercare di interpretare cosa sia l'individuo e cosa sia la specie, il che è abbastanza palese: l'individuo è la cura di se stessi, la specie è la cura del prossimo, e già svariate volte ho cercato di dimostrare come la cura del prossimo sia la rovina della nostra essenza, il rinnegamento del nostro istinto-madre: la nostra natura vive nell'individualità, sacrificarsi sull'altare della specie equivale a mozzarci la testa con le nostre stesse mani, è come l'agnello che si reca deliberatamente nella tana del lupo.

Proseguendo, Schopenhauer persiste nell'inversione già criticata nel primo periodo: giustamente si può plaudire la scelta della fanciulla di seguire i propri istinti a scapito di un futuro circondato dalle ricchezze (dopotutto, ciascuno di noi non può essere chiamato a giudicare delle scelte dei nostri simili, salvo che tali scelte possano condizionare od alterare i nostri obiettivi ed i nostri interessi); ma come si può affermare che ella, con tale decisione, abbia sacrificato l'individualità alla specie? La specie non ricopre nessun ruolo nella nostra esistenza, la specie non esiste se non come nozione per indicare la macrocategoria degli esseri viventi aventi tra loro caratteri comuni. Mai la specie può essere adita a stabilire e manovrare le nostre scelte, esistiamo soltanto noi come individui, muovendoci in un labirinto di scontri e alleanze, correndo e sgomitando il più possibile per raggiungere il nostro obiettivo. Pertanto ella non ha agito secondo il senso della natura, come fallacemente conclude l'Autore, ma ha agito seguendo i dettami dell'etica, che è il morbo più venefico di tutti.

Vedete, dunque, come l'amore incondizionato sia solo uno specchietto per le allodole. Ci sono molti altri elementi che entrano in gioco, e di fronte ad essi il valore "spirituale" dell'amore è destinato a soccombere. Ma non è questo il momento di arrivare ad una soluzione irruente e frettolosa sulla complessa questione aperta con questa dissertazione odierna, mi riservo di proseguire in futuro ed illudendomi di avervi aperto gli occhi, istigato la Ragione e stuzzicato l'interesse.

A. G.

sabato 4 gennaio 2014

La Stagione della Verità.

Inverno. Primavera. Estate. Autunno.
Questi non sono semplicemente i nomi con cui, da ancestrale usanza, si indicano le quattro stagioni, ma estendendone ulteriormente la portata è possibile vedere le varie sfaccettature con cui l'essere umano guarda al Creato, quante possibilità egli abbia di raggiungere la Verità e come ne determina la lucidità o l'opacità del modus vivendi.
Che dire dell'Inverno? Impietoso, ingombrante quanto la mole di abiti che dobbiamo indossare per sopravvivere alle sue pugnalate talmente fredde da bruciarci le viscere, il classico pretesto per rinchiuderci nel calore delle nostre dimore e lasciare che il mondo vada avanti. L'Inverno, a torto del suo nome, è davvero in grado di rendere la nostra vita un Inferno: esso chiude i nostri occhi con sferzate di vento antartico, screpola le nostre labbra a tal punto che una sola parola è in grado di tingerle di sangue, arrossa le nostre orecchie costringendoci a coprirli impedendoci di udire la Verità. La vita dell'Inverno è una vita cieca e stolta.
Si dovrebbe dire che il rovescio di quest'algida medaglia sia una vita rivolta alla Verità, augurandoci una eterna Estate a sostegno della gloria di quanto ci circonda, eppure non è così: innegabilmente le nostre menti sono più sgombre quando il Sole lancia i propri dardi infuocati sulla Terra, ma la canicola distrae i nostri pensieri ed arrugginisce i nostri ragionamenti, così da rendere la nostra vita ancora più stolta. E perché questo? Perché non siamo in grado di adattare il nostro intelletto al mondo che la Natura ha creato per noi esseri razionali, rivelando così la nostra indegnità a questo sommo privilegio a causa di cotanta debolezza.
Badate invece ai due equinozi. Il riferimento etimologico ad æquinoctium è superfluo, a noi è sufficiente percorrere la metà della strada, è sufficiente fermarsi ad æqui per carpire il sommo equilibrio di queste due stagioni: la nostra vita è equamente spartita tra Natura e Ragione, in modo da poter adattare il nostro intelletto all'ambiente in cui viviamo senza che l'uno sottragga valore all'altro, uguale spartizione come tra il Giorno e la Notte, sommo equilibrio a cui la nostra esistenza protende.
Ma è più equilibrata una vita in guisa di Primavera od in guisa di Autunno?
A tal proposito ritengo agevole inserire come deus ex machina un fenomeno atmosferico: la nebbia. Questa nube che tange il suolo, simbolo dell'Autunno tanto quanto l'albero rinsecchito e dalle foglie sanguinanti, è, a mio avviso, un monito rivolto a noi esseri viventi: ci sono cose oltre le quali non potremmo mai oltrepassare, se non a rischio della nostra vita e della nostra Ratio
La Primavera è per i superbi che credono di poter spiccare il volo gettandosi da un grattacielo, l'Autunno è per gli avveduti che riconoscono gli innati limiti stabiliti dalle leggi naturali. 
Viviamo la nostra vita come se fosse sempre Autunno, e ricordate: siamo venuti al mondo per fare grandi cose coi doni che ci sono stati riservati, ma queste cose, per quanto grandi, non saranno mai immense o mastodontiche od eterne come il progetto che la Natura ha costruito.

A. G.